Nell’ambito delle iniziative per ricordare il 92° anniversario della nascita del Cardinale Martini, il Vicario generale dell’Arcidiocesi di Milano, monsignor Franco Agnesi, ha presieduto la celebrazione eucaristica vigiliare di sabato 16 febbraio nella chiesa di San Fedele. Nell’ambito della Messa – molto partecipata – madre Maria Ignazia Angelini, abbadessa della comunità monastica delle Benedettine di Viboldone (Milano), ha tenuto un’intensa meditazione sul brano evangelico di Luca proclamato nella liturgia ambrosiana. Clicca sotto per ascoltare l’audio; più sotto, la traccia del testo.

 


Luca 17, 11-19

«Lungo il cammino verso Gerusalemme, il Signore Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: “Gesù, maestro, abbi pietà di noi!”. Appena li vide, Gesù disse loro: “Andate a presentarvi ai sacerdoti”. E mentre essi andavano, furono purificati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: “Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?”. E gli disse: “Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!”».

Stupendo. È meraviglia, ogni volta, scoprire come evento e Parola, nell’Eucaristia, si illuminano di senso.

Eucaristia è trasformazione, attraverso la charis. Il grazie che trasforma la realtà, ogni umana realtà. Ebbene, ricordare  oggi – immersi nel Memoriale di Gesù – il nascere di Carlo Maria Martini: ricordare lui, nella luce di questo Vangelo – che càpita, “ci tocca” nello scorrere della liturgia della chiesa, stupisce.

Padre Carlo Maria Martini amava questo Vangelo, quasi ostinatamente. Lo amava nel suo nesso di continuità con i versetti che in Luca precedono: il detto di Gesù sul «servo gratuito, da nulla» (Lc 17,1). Ne è visibilmente attratto, soggiogato, persino inquietato. A tempo e fuor di tempo lo cita, fino all’ultimo, e l’interpreta liberamente: cogliendo tutta la luce attrattiva dell’homo eucharisticus.

Accostare, così, la memoria cara di Lui, alla Memoria “pericolosa” di Gesù: è vedere sprizzare mille scintille di luce generativa, infiniti percorsi – che a ciascuno aprono la via.

Vedere questa luce, richiede molto ascolto. È la lezione costante di lui, Maestro di ascolto. Sta’ in ascolto, ed ecco: l’apparente casualità, nella libertà dello Spirito, si trasforma in kairòs: rivelazione. Luce trasformante è la Parola, anzitutto dentro l’Eucaristia. È la Sua eredità: «Lampada per i miei passi la tua Parola, luce sul mio cammino».

Impossibile – qui, ora – fermarsi a raccogliere a voce alta tutte le luci di questo Vangelo. Possiamo solo accennarle, di sfuggita, con immenso stupore:

* Prima luce: La lebbra, nella bibbia è la malattia più antica del mondo: patologia della pelle, consunzione della carne, la relazione malata. Il corpo proprio vanificato, vergognosamente isolato, separato. Da Maria sorella di Mosè, divorata dall’invidia (Nm 12,10), fino a Simone di Betania nella cui casa – secondo il Vangelo di Marco 14,3 – la pubblica peccatrice cui molto era perdonato unge i piedi di Gesù: lebbra è impotenza alla relazione, e perciò al culto. Del Servo sofferente, tuttavia, sta scritto nel profeta Isaia: putavimus eum quasi leprosum. Ed è mistero.

* Seconda scintilla: I dieci: 1+9. Qui, in Luca, il lebbroso non è solo: è lo straniero (samaritano!), più i nove con lui: una strana koinonia dei lebbrosi. La sconcertante comunità dei vocianti a distanza, comunicazione “virtuale” che tuttavia, attraverso la vicenda dell’uno, è messa in scacco. Quante volte il card. Martini ci ha sollecitate a rileggere le vicende comunitarie, soprattutto nell’ora della crisi, a partire dalla minoranza profetica. Fosse pure una minoranza maledetta: lo straniero che ha aderito al Signore.

* Terza luce: la gratitudine. L’infinita distanza dall’altro, rappresentata dalla lebbra, è varcata, dall’uno straniero, samaritano, solo per la forza della gratitudine, che irrompe d’improvviso dal corpo trasformato. Alla Voce di Gesù: che trasforma la percezione del corpo proprio. In grazia della voce di Gesù nasce l’uomo in relazione, il corpo è percepito come luogo dell’abissale avvio della conversione, alla relazione di appartenenza: il grazie della fede. Passare dall’urlo a distanza, del bisogno al grazie di una nuova appartenenza. Qui, per Martini, è il punto.

* Quarta luce: E per finire, l’utopia di Gesù: la comunità (e – a suo fondamento – l’anima personale) trapassata, lacerata, giudicata e ricomposta nella domanda tagliente, profetica di Gesù: «… gli altri nove, dove sono?». Già la lasciava intuire la profezia, nel tempo del ritorno dalla deportazioni, questa passione divina: «Io radunerò altri, oltre ai già radunati» (I lettura).

Ci fermiamo su una, due, delle infinite scintille del mirabile incontro tra Parola e evento, in eucaristia. Guidati dal “nostro” card. Carlo Maria Martini.

«Uno di loro, vedendosi guarito». È tutto un incontro strano, questo: e, ciò che accade nel corpo, differenzia i lebbrosi. A distanza, il grido; a distanza, la voce di Gesù; a distanza, anche la percezione corporea della guarigione. Ma, dal corpo proprio “visto”, nella sua passività, guarito, percepito cioè nella trasformazione a nuova integrità – operata dalla voce – in uno solo scatta, irresistibile, l’attrazione a Gesù, la fede, legame gettato dalla gratitudine che risponde alla grazia. Rigenerata capacità di relazione.

Cogliendo sulla propria pelle consunta – “questo corpo di morte”, come si esprime san Paolo (Rm 7,24) – l’impronta dell’Altro, purezza nuova, il samaritano-straniero “ritorna” trasformato:

ritorna dalla lontananza dell’urlo, / alla vicinanza adorante,
dalla distanza / alla reciprocità:
dalla ipocrisia “osservante” della legge, / al corpo proprio
prostrato in todah, sacrificium laudis.
E l’urlo si fa canto  – magnificat.

Ecco come agisce lo stigma di Gesù: la sua voce di risurrezione (Mt 28,9), l’eccesso rivelante di Lui trasforma l’umano; e l’avvio è la percezione del corpo proprio, riscattato nell’appartenenza ad altri: eucharistoi ginesthe, dirà Paolo (Col 3,15). Diventa uomo del grazie.

L’esigenza del Vangelo della grazia, si fa così corporalmente evidente: oltre tutte le procedure e i riti, oltre tutti i ruoli e le appartenenze prefissate: perché ci tocca nel più intimo e ci invita all’esposizione di noi stessi nella relazione. Fino all’espressione rischiosa, estrema, gratuita – l’adorazione.

A fronte di Gesù, il corpo proprio ritrovato nella grammatica della todah, nell’appartenenza totale, grata, ad Altri.

Dalla vergognosa propria nudità – paura e solitudine vociante – all’adorazione corporea: Altri percepito come salvezza.

L’unità dell’anima, qui – e Martini ogni volta lo sottolinea – è fatta attorno al “grazie” corporeo.

Confessio laudis. La todà principio e fondamento della fede.

È il cuore dell’evento, e – da allora – è il cuore dell’Eucaristia.

Eucaristia: dalla lontananza maledetta attratti al corpo di Gesù, vedere se stessi con lo sguardo originario: “vedendosi guarito”…

Ma non si ferma qui la grazia che ci salva “da questo corpo di morte”: attraverso e oltre l’adorazione, si staglia l’utopia di Gesù.

Gesù, infatti, non riconosce il samaritano e la sua fede, se non dopo aver avvertito acutamente la mancanza che si fa domanda: “… e gli altri?”.

L’appartenenza originaria dei dieci, la co-umanità, non è dissolta dalla fede. È rigenerata, piuttosto. Questo è l’eucaristia  nell’utopia di Gesù. Lui, che per risolvere la domanda (“e gli altri?”) s’immedesimerà – fino a identificarsi – col lebbroso; come è scritto nel profeta Isaia: “Putavimus eum leprosum…”: Isaia 53,4.

Gesù, accogliendo la fede del samaritano, prima accomunato agli altri dalla lebbra, rivela la punta estrema dell’eccesso rivelante della sua Voce che guarisce: mancano gli altri nove.

Il corpo, è – Gesù lo sa bene, e lo dice nella Cena ultima – il luogo originario di tutte le solidarietà, indissolubili (come dice Eb 13,3: «perseverate nell’amore fraterno, non dimenticate l’ospitalità, ricordatevi dei carcerati … perché anche voi siete en somati, nel corpo»).

Quando Martini commenta questo gesto, fa un’ardita trasposizione: azzardo a dire che rivela la sua anima monastica, poiché applica liberamente quanto si dice dei dieci, al microcosmo generativo dell’anima personale. Dice Martini: «Gli altri nove sono le parti di noi che mancano alla todà, al canto di grazie, di esultanza per l’eccesso di Dio che ci riguarda, dalla nostra lebbra ci rigenera, ci fa semplicemente esistere (…), troppo spesso è solo una parte su dieci del nostro cuore che ringrazia davvero».

Lui, il Vescovo, il Maestro spirituale, in quei “nove” – quasi che in quell’incontro si giochi l’esperienza originaria, a fondamento della Chiesa – intuisce le parti dell’anima che resistono a riconoscersi, e a convertirsi, nella resa totale alla charis.

E il grazie, rigenerata unità della vita, invoca l’unità dei molti e diversi.

L’unità dell’anima, per sé è invocazione e germe dell’unità dei molti e diversi.

La libertà liberata.

Capacità di ardere all’incontro con la grazia.

Culto non rituale.

Germe della pasqua.

Ecco la nuova nascita alla relazione. La generatività nuova del raduno. «Non dica l’eunuco: Ecco, io sono un albero secco» (Is 56,3).

Contro ogni sventura, in ritorno da ogni deportazione, Isaia anticipa, “sarà dato loro un posto e un nome eterno” (Is 56,5). Sappiamo la risonanza, oggi, di quella espressione forte del profeta Isaia: yàd vashèm: Gerusalemme ce la rimanda. Ogni più cruda sconfitta dell’umano sarà riscattata. Gli “altri” nove ritorneranno. Ma qui, è solo un interrogativo.

Sentenza e apertura interrogativa, è il cuore di questo Vangelo …

Ecco: il giudizio, pronunciato da Gesù, a fronte dell’uno su nove che ringrazia, non è condanna ma apertura di spazio utopico. Lui, lo straniero samaritano, ha vissuto un’esperienza totalmente immersiva, battesimale. È, la sua adorazione, come la gratitudine della peccatrice prostrata ai piedi, in casa di Simone, l’avvio della crisi profetica: gratitudine rivelante. Anche là, in casa di Simone il lebbroso, l’amore, gratuitamente corrisposto, crea una sorta di giudizio per un nuovo raduno.

Apre lo spazio utopico di futuro. La fede che fa risorgere, chiama in causa l’incredulità di chi crede. La purità legale, rituale non vale a nulla senza l’attenzione adorante alla relazione, gravida di Dio.

E il giudizio tiene aperta la domanda, e interpella il nostro oggi. Martini l’ha ben compreso.

L’uno, risorto, ormai, non può più essere separato. L’uno dell’anima, l’uno nella chiesa. Il Vangelo della grazia ha, come corrispondente in chi lo riceve, lo stigma della gratuità.

Non c’è niente di più esigente della gratuità, In realtà Gesù mentre accoglie, guarito, lo straniero, ha a cuore i perduti di casa.

L’Eucaristia che ci raduna qui per fare memoria, come roveto ardente che arde e non consuma, ci offre una miriade di luci e ci spinge, quasi ci costringe, a una sintesi improbabile a partire dall’unità generata dall’eucharistein: “e gli altri, e i nove, dove sono?”. Crisi dell’anima solitaria e crisi della chiesa, in tutti i tracciati di angusti confini.

E, quasi epiclesi non rituale, udiamo al cuore di questa eucaristia alta la voce di CMM – che amava molto, che citava spesso (fino all’ultimo) questo Vangelo. Come nella sua ultima Lettera pastorale:

«Vorrei che molti si unissero a questi atteggiamenti di lode semplice e sincera a te, o Padre, che ci ami. Temo che, con la scusa di uno sguardo disincantato, critico e oggettivo sul cammino compiuto, ci possiamo meritare il rimprovero accorato di Gesù: «Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono?” (Lc 17,17).

Abbiamo infatti tutti bisogno di crescere nello spirito eucaristico, cioè nell’attitudine di sapere, prima di ogni altra cosa, ringraziare e lodare per i doni ricevuti. “È veramente cosa buona e giusta renderti grazie qui e in ogni luogo”, cantiamo nel prefazio di ogni Eucaristia, ma troppo spesso è solo una parte su dieci del nostro cuore che ringrazia davvero, mentre prevale in noi il gusto della lamentazione su quello della riconoscenza».

Radunati dalla sua epiclesi (“Vorrei che”: e invoco che sia così), dal suo desiderio resistente a tutte le smentite, possiamo fare nostra l’acclamazione di Paolo, che pure sperimenta la sete di liberazione dal corpo di morte (Rm 7,25): «Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore!».

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