È iniziata sabato scorso, 18 gennaio e si concluderà sabato 25 la tradizionale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, un’iniziativa internazionale di preghiera ecumenica cristiana che si celebra ogni anno. Le due date non sono casuali: il 18 gennaio è la festa della cattedra di san Pietro, il 25 si ricorda la conversione di san Paolo. L’iniziativa fu avviata ufficialmente dal reverendo episcopaliano statunitense Paul Wattson nel 1908. Titolo e tema di quest’anno è il versetto degli Atti degli Apostoli «Ci trattarono con gentilezza» (Atti 28,2).  

Sul tema dell’unità dei cristiani riportiamo di seguito la meditazione che il cardinal Martini tenne in occasione della Settimana di preghiera del 1996. Tema di quell’anno era: «Ascoltate, io sto alla porta e busso» (Ap 3,14-22).   

 

AL SIGNORE GESÙ AFFIDIAMO IL NOSTRO GEMITO E LA NOSTRA TIEPIDEZZA

Meditazione tenuta nella basilica di S. Ambrogio la sera del 18 gennaio 1996 per la celebrazione ecumenica della Parola in apertura della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani sul tema: “Ascoltate, io sto alla porta e busso” (Ap 3,14-22). Nel libro dell’Apocalisse, l’ultima delle sette lettere inviate alle Chiese dell’Asia è indirizzata alla Chiesa di Laodicea, che viene duramente biasimata per la sua tiepidezza spirituale. Anche le Chiese di oggi possono restare nella tiepidezza rispetto al cammino ecumenico suscitato dallo Spirito e non aprire al Signore che, con amore e discrezione, bussa alla loro porta. Martini mette in luce che, in quella lettera, al culmine del biasimo corrisponde il culmine della promessa. Pertanto, se apriamo la porta allo spirito ecumenico, il Signore delle Chiese entra a cenare con noi e ci fa sedere sul suo trono nella grande comunione con il Padre. Testo pubblicato in Carlo Maria Martini, Parlo al tuo cuore. Lettere, discorsi e interventi 1996, Bologna, Edb, 1997, pp. 33-39.             

 

È bello, carissimi fratelli e sorelle, poter pregare insieme per l’unità dei cristiani in questa basilica dominata dalla fi­gura di sant’Ambrogio, grande vescovo della Chiesa antica, indivisa, della Chiesa nella quale si ritrovano uniti oriente e occidente. Vogliamo pregare affinché, dopo il secondo millennio che ha visto le divisioni tra le Chiese, si ritorni ai tempi dei santi Padri dell’oriente e dell’occidente, quando tutta la Chiesa di Cristo viveva nell’unità.

Le sette lettere dell’Apocalisse

La nostra preghiera parte, questa sera, da una pagina dell’Apocalisse (3,14-22). Essa presenta l’ultima delle sette let­tere alle Chiese dell’Asia che leggiamo nel secondo e nel terzo capitolo del libro. Alle sette lettere seguiranno i sette sigilli, le sette trombe, le sette coppe; tra i quattro settenari, quello delle lettere sem­bra il più facile in quanto hanno un contenuto parenetico, esortativo, apparentemente semplice da interpretare rispetto ad altri brani di questo enigmatico libro. In verità, anche qui le domande, i problemi, gli interroga­tivi esegetici sono molti. Si tratta di lettere reali, scritte a Chiese reali, riferite a situazioni storiche? Oppure sono fittizie e, sotto il velo di simboli, vogliono esprimere i grandi tempi della storia della salvezza, in consonanza con quanto avviene nei capitoli successivi dell’Apocalisse?

Tralasciando tuttavia la ricerca esegetica, noi intendiamo limitarci ad ascoltare con semplicità le parole della settima let­tera, così come suonano, e guardando a Gesù Cristo come il centro di ogni pagina del Nuovo Testamento. La figura di Gesù è stata introdotta fin dalle prime righe dell’Apocalisse come quella di colui che è in mezzo alle sue Chiese, mediante due immagini: Gesù sta in mezzo ai sette candelabri d’oro e, nella destra, tiene sette stelle (cfr. 1,12-16). Immagini spiegate poi al versetto 20: le sette stelle sono gli angeli delle sette Chiese e le sette lampade sono le sette Chiese. Dun­que Gesù, trionfante, glorioso, è in mezzo alle sue Chiese, le tiene bene in mano, non le abbandona, non le dimentica anche se sono molte e diverse tra loro. E dà ordine al veggente di scrivere una lettera a ciascuna di esse.

Le sette lettere hanno una struttura molto simile: l’indica­zione del destinatario e del personaggio che scrive, la descri­zione concreta di ogni singola Chiesa, l’invito ad ascoltare, la promessa del premio al vincitore. Il contenuto di ciascuna di esse è sostanzialmente uno: è Cristo Gesù mostrato come colui che conosce esattamente ogni Chiesa, nella sua forza e nelle sue debolezze; colui che in­dica la retta via con attenta cura e severa ammonizione; colui che dona fiducia a ogni sua Chiesa, facendola guardare al com­pimento finale.

Una chiesa mediocre

La lettera scelta per la nostra meditazione è destinata al­l’angelo della Chiesa di Laodicèa, città nota nel Nuovo Testa­mento, in particolare nell’epistolario paolino. Paolo infatti, scrivendo ai Colossesi, accenna a una lettera precedente indi­rizzata a Laodicèa (cfr. Col 4,16), una delle tante fiorenti comunità nella re­gione dell’Asia Minore, presso la costa occidentale dell’attuale Turchia. Si trattava di Chiese che costituivano, anche come città, dei centri molto validi di cultura ellenistica, con splendidi templi e grandi edifici pubblici; ancora oggi è possibile ammi­rarli nei loro ruderi straordinari (nemmeno Roma conserva dei ruderi così imponenti).

All’angelo della Chiesa di Laodicèa scrivi:

Così parla l’Amen, il Testimone fedele e verace, il Principio della creazione di Dio: Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. Tu dici: “Sono ricco, mi sono arricchito: non ho bi­sogno di nulla”, ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo. Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per co­prirti e nascondere la vergognosa tua nudità e collirio per un­gerti gli occhi e ricuperare la vista. Io tutti quelli che amo li rimprovero e li castigo. Mostrati dunque zelante e ravvediti. Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me. Il vincitore lo farò sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono. Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese (3,14-22).

Notiamo subito che la lettera, all’inizio, descrive colui che la detta, che parla alla Chiesa, il Signore Gesù a cui vengono attribuiti titoli e simboli diversi. Egli è l’Amen, il Testimone, il fedele e verace, il Principio della creazione di Dio. L’Amen: colui sul quale si può fare assoluto affidamento perché la sua parola ha validità incondizionata. Il Testimone: colui che dalla nascita alla morte e alla risur­rezione rende testimonianza al Padre. Il fedele e verace: colui che non teme smentita; una men­zione che ritornerà in Apocalisse 19, nella visione di colui che cavalca un cavallo bianco e si chiama “Fedele e Verace: egli giudica e combatte con giustizia”. È sempre il Cristo che com­pie le promesse del Padre, lo mostra fedele e realizza il giorno del Signore vincendo tutti i nemici.

“Principio della creazione di Dio” è la designazione che ri­troveremo alla fine del libro (Ap 22,13), quando Gesù dirà di sé: “Ecco, io verrò presto […] io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine”. Con questa descrizione viene indicata l’importanza di Gesù per tutta la creazione e per tutta la storia: tutto è creato per mezzo suo, tutto trova in Lui significato e compimento. Gesù tiene in mano la storia e conosce a fondo la vita delle sue Chiese. Quasi tutte le sette lettere hanno la formula: “Conosco le tue opere”, “ti conosco”, so chi sei e che cosa fai.

La caratteristica dell’ultima lettera, quella appunto a Lao­dicèa, è però anzitutto il biasimo. Manca la lode che è presen­te all’inizio delle altre (eccetto la quinta) e le parole che ab­biamo ascoltato sono assai forti: Laodicèa è tiepida, dovrebbe essere vomitata dalla bocca. È una minaccia un po’ simile a quella rivolta alla Chiesa di Efeso, a cui si rimprovera di aver abbandonato l’amore delle origini, per cui il candelabro po­trebbe essere tolto dalla sua sede (cfr. Ap 2,1-7). Tuttavia, mentre di Efeso vengono riconosciute, in positivo, le opere, la fatica e la costanza, Gesù non ha proprio nulla di positivo da dire a Laodicèa.

Si tratta di una Chiesa che non ha forse i difetti gravi di al­tre, non ha rinnegato la fede, ma è tiepida, soddisfatta di sé, presume di essere a posto; sostanzialmente tiene fede a Gesù, però rimane a distanza, tutela la propria autonomia e la pro­pria tranquillità, il quieto vivere. Non sa amare “con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutte le forze”. E Gesù non vuole una fede, un cristianesimo senza passione; vuole calore, fuoco, la messa in gioco di tutta la per­sona e di tutta la comunità. A Laodicèa invece la gente crede di sapere già tutto e di avere tutto: “Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla”. E Gesù avverte: ti sbagli, tu sei meschino, miserabile, povero, cieco e nudo.

Non a caso questa Chiesa mediocre è descritta per ultima, dopo le altre sei, prima di iniziare la rivelazione del mistero di Dio nella storia (cfr. 4ss). L’intento è di mettere in luce il peri­colo che corre ogni Chiesa quando non è afflitta da grandi prove o persecuzioni, quando vive un cristianesimo poco pro­vocato e poco rischioso. Viene a mancare lo stimolo per do­nare la vita e ci si affloscia. Noi abbiamo visto come le Chiese dell’oriente, provocate dalle persecuzioni, sono state capaci di testimoniare la robu­stezza della loro fede. La lettera a Laodicèa, possiamo dire, è scritta a Chiese dell’occidente, affette dalla malattia che uccide. La malattia mor­tale, il pericolo più grave del cristianesimo in una società libera e secolarizzata, in una società in cui tutto è accettato purché non si disturbi tanto gli altri, è quello della tiepidezza, dell’indifferenza, della monotonia, della mediocrità.

I rimedi proposti da Gesù 

È allora importante comprendere quale rimedio Gesù pro­pone a questa situazione di Chiesa. Per i mali delle sei lettere precedenti, aveva proposto cor­rezioni molto forti. Contro i compromessi pagani di Pergamo e di Tiatira, per esempio, erano state minacciate punizioni se­vere (cfr. Ap 2,16ss). Invece, di fronte al male terribile della tiepidezza, i cri­stiani sono rimandati direttamente a Gesù: è lui che dà oro, ve­sti bianche, collirio per gli occhi. Soltanto se riconoscono di es­sere meschini e si rivolgono proprio a lui, i laodicesi possono trovare aiuto.

Gesù si presenta quindi alla Chiesa di Laodicèa come colui che ha rimedi anche per quello stato d’animo così pericoloso e così nostro che è la tiepidezza, l’inerzia, l’indifferenza reli­giosa. E offre un triplice rimedio: oro, vesti bianche e collirio, in cui leggiamo il simbolo di un amore fervente, di uno spirito interiore che investe la persona, di una capacità di discerni­mento e di conoscenza.

Sono vari i modi con cui il Signore Gesù, nel corso della storia della Chiesa, ha attualizzato tali rimedi. Io vi vedrei vo­lentieri, tra gli altri, il rimedio della lectio divina, della lettura meditata della Scrittura, con cui Gesù rinnova le sue Chiese: è quell’esercizio bene esemplificato nell’incontro di Gesù con i discepoli di Emmaus. Infatti, la lectio divina, il ripercorrere con Gesù tutte le Scritture, riscalda il cuore (l’oro provato al fuoco), investe la persona di spirito di fede profondo (le vesti bianche), mette in comunione con Gesù alla sua mensa, apre gli occhi (il collirio) alla conoscenza vera del disegno di Dio.

Egli sta alla porta e bussa

È bello notare che, proprio con una Chiesa debole e ad­dormentata come quella di Laodicèa, Gesù usa il linguaggio più personale e persino più affettuoso: “Io tutti quelli che amo, li rimprovero e li castigo”, li sottopongo a disciplina (v. 19). Egli sta alla porta e bussa: e aspetta che gli sia aperto. È difficile pensare a un’immagine più tenera e accorata. Il Signore potente, che ha la chiave di tutto e di tutto dispone, “colui che ha la chiave di Davide” e che “quando apre nessuno chiude e quando chiude nessuno apre” (cfr. Ap 3,7: lettera alla Chiesa di Filadelfia), sta alla porta e attende che gli venga aperto, aspetta che noi gli apriamo. Non viene per un castigo, ma per una comunione. Viene a celebrare il banchetto dell’unione personale e cordiale con lui.

Infine, come in ognuna delle lettere, dopo le ammonizioni c’è la visuale del premio, il cosiddetto “versetto del vincitore”. L’ultima lettera, che ha il culmine del biasimo, ha pure il cul­mine della promessa: “A chi vince darò di sedere presso di me, sul mio trono, come io ho vinto e mi sono assiso presso il Padre mio sul suo trono” (3,21). Gesù promette il massimo a questa Chiesa tiepida e pigra; promette il suo stesso trono – che è quello del Padre –e non solo un trono vicino al suo. Non solo dei doni, anche se splen­didi, bensì la comunione più piena possibile con sé e con il Padre. 

Il Signore delle Chiese

Dalle lettere dell’Apocalisse traspare quindi una potente e confortante immagine di Gesù, che sottostà all’intero libro e prelude a una lettura dei disegni di Dio sulla storia. Il Signore della storia è il Signore delle Chiese, le accompagna nel loro cammino, non le abbandona, le ama pure quando le rimpro­vera aspramente. Noi vogliamo contemplarlo così, per lasciarci confortare da tale visione, nella certezza che Cristo Gesù presiede anche al cammino, al movimento ecumenico.

Ci avviciniamo al terzo millennio, nel quale vorremmo en­trare avendo superato le dolorose divisioni del passato. Ma a lui solo, che ha le chiavi della storia, affidiamo il nostro gemito e la nostra tiepidezza. A lui domandiamo la veste bianca dell’unità, l’oro della ca­rità tra tutte le Chiese, il collirio per vedere tutti insieme la sua volontà.

La lettera a Laodicèa termina con la parola: “Chi ha orec­chi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese” (v. 22). Essa è ri­volta non a una Chiesa particolare, ma a tutte le Chiese (cfr. Ap 2,7.11.17.29; 3,6.13). Possiamo giustamente pensare che venga detta oggi a tutte le Chiese cristiane: tutti infatti dobbiamo misurarci con questi rimproveri e con queste promesse; tutti siamo chiamati ad aprire la porta a colui che bussa; tutti siamo invitati a cenare con Lui, insieme, e a sederci sul suo trono, presso il Padre.

Cronologia in breve

  • 15 febbraio 1927

    Nasce a Torino, è il secondo dei tre figli – Francesco (1925) e Maria Stefania (1935) – dell’ingegner Leonardo Martini e di Olga Maggia.

  • 25 settembre 1944

    25 settembre 1944

    Entra nella Compagnia di Gesù, presso il noviziato di Cuneo

  • 13 luglio 1952

    13 luglio 1952
  • 29 settembre 1969

    Già decano della Facoltà di Scrittura dal 1967 sostituisce padre McKenzie e viene nominato rettore del Pontificio Istituto Biblico, incarico che manterrà fino al 1978.

  • 18 luglio 1978

    18 luglio 1978

    Paolo VI lo nomina magnifico rettore della Pontificia Università Gregoriana: succede al padre Hervè Carrier

  • 29 dicembre 1979

    Viene eletto alla cattedra episcopale di Milano da Giovanni Paolo II

  • 10 febbraio 1980

    10 febbraio 1980

    Fa il suo ingresso nella diocesi di Milano, percorrendo a piedi un cammino penitenziale dal Castello Sforzesco al Duomo.

  • 2 Febbraio 1983

    Viene creato cardinale da Giovanni Paolo II

  • 2-4 ottobre 1986

    2-4 ottobre 1986

    Durante la XVI assemblea a Varsavia, viene nominato Presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE); inizia il mandato con la Pasqua del 1987 e lo conserva fino al 1993.

  • 11 novembre 1987

    11 novembre 1987

    Prende il via l’iniziativa della Cattedra dei non credenti. Tema di questa prima edizione Le ragioni del credere. Seguiranno altre undici edizioni.

  • 1 febbraio 1995

    Dopo aver concluso i lavori del 47° Sinodo Diocesano, offre le sue dimissioni al Papa che le respinge

  • 15 febbraio 2002

    Compie settantacinque anni: secondo quanto previsto dal codice di diritto canonico si dimette da arcivescovo di Milano e attende che il Papa accolga la rinuncia e nomini il successore

  • 11 luglio 2002

    11 luglio 2002

    Viene resa nota la nomina del cardinale Dionigi Tettamanzi quale successore di Martini

  • 10 settembre 2002

    10 settembre 2002

    Parte per Gerusalemme, dove trova alloggio in una stanza nell’Istituto Biblico. Per qualche anno, alternerà questa residenza con qualche periodo in Italia, nella casa dei gesuiti di Galloro, presso Ariccia (Roma).

  • Marzo 2008

    Attorno a Pasqua, le sue condizioni di salute peggiorano. Decide di rientrare in Italia per curarsi e si stabilisce a Gallarate

  • Maggio 2008

    Maggio 2008

    Esce, dapprima in tedesco e poi in moltissime lingue, il volume Jerusalemer Nachtgespräche (Conversazioni notturne a Gerusalemme), che raccoglie i colloqui del cardinale con il gesuita austriaco Georg Sporschill. È un confronto a tutto tondo sul rapporto tra Chiesa e mondo contemporaneo.

  • Dicembre 2011

    Esce Il Vescovo, volumetto in cui condensa la sua riflessione sul ruolo, le scelte, i problemi e i rischi del ministero episcopale

  • 31 agosto 2012

    31 agosto 2012

    Nella seconda metà del mese, a seguito dell’aggravarsi della malattia le sue condizioni di salute precipitano: muore a Gallarate alle 15.45 dell’ultimo giorno del mese. Viene sepolto nel Duomo di Milano.

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